“Latinoaustraliana” pills: La Grande Barriera Corallina

La mattina dopo ci svegliammo all’alba. Era il gran giorno. Ci dirigemmo verso l’Esplanade, con l’alba che ammiccava in fondo ad un cielo pieno di nuvole bianche, rendendo il tutto epico e sognante. Arrivammo al molo, pieno di navi che facevano escursioni sulla barriera. Ogni cosa che galleggiasse e che riuscisse a portare a bordo almeno un passeggero aveva nomi come “Barrier Express” o “Reef & Sun”. La nostra faceva la sua figura, là in mezzo. Era a tre piani, bianca e blu, solida. Porgemmo i nostri documenti ad una ragazza bionda che ci sorrise e ci disse di accomodarci. Io e Skye arrivammo fino ad uno dei ponti e ci sistemammo. Venne un tizio con un vassoio pieno di panini con pancetta e uova. Mi stavo già avventando quando la ragazza bionda di prima ci sorrise di nuovo e disse: “Scusate, questo non è il vostro piano”.
Quella era la prima e, a quanto pareva, noi eravamo in seconda. Eccomi lì, a bordo del Titanic, che puntavo dritto verso il mare aperto.
Un uomo con capelli lunghissimi e ricci da metallaro ci assegnò maschere e boccaglio.
Ci allontanavamo velocemente dalla costa. Il sole era già comparso e poi sparito nuovamente. Ecco una cosa che a Cairns è sempre un azzardo: comprare un tour da 300 dollari a testa, senza sapere fino all’ultimo se ci sarebbe stato bel tempo.
Contrariamente a quello che ci si può aspettare, per arrivare alla barriera bisogna navigare un bel po’. Quando ci fermammo, il biondo diede il segnale. Prendemmo maschera e boccaglio, indossammo le pinne e ci lanciammo.
Entrai nell’acqua emozionato. Avevo fatto tante immersioni, ma sentivo sulla pelle che questa era una cosa a sé.
L’acqua era calda, accogliente. Ti faceva persino dimenticare che eri praticamente in mare aperto. La prima sensazione fu un blu totale, completo, perfetto. Con Skye al fianco, cominciai a nuotare.
Il corallo apparve rompendo la monotonia di un colore con mille tonalità che risaltano e abbagliano e che ti fanno pensare di trovarti in un documentario, tanto sono perfette. Compone una massa enorme, compatta, infinita. Sotto di noi c’era uno strapiombo di diversi metri, ma tra il corallo e la superficie si andava dai tre metri a meno di uno.
Mi lasciai andare ad osservare ogni pesce che mi passava davanti – e i pesci erano anche loro coloratissimi, quasi fluorescenti, enormi e minuscoli, e curiosi. Non scappavano mai se non all’ultimo e ti davano persino l’impressione di essere loro che stavano osservando te e non viceversa.
Facendoci ampi gesti emozionati, io e Skye indicammo uno squalo di barriera che ci nuotava davanti. Difficilmente superavano il metro e mezzo, anche se questo non era dei più piccoli. Intorno non c’era nessuno. Solo noi, mare, corallo, e questo squalo che si aggirava con aria minacciosa, compiendo guizzi improvvisi verso la superficie.
Continuai a nuotare, ad indicare, a lasciarmi affascinare da così tante cose e forme e colori che alla fine non distinguevo più niente. Tutto era meraviglia, ai miei occhi di bambino cresciuto. Il me stesso di vent’anni prima era commosso da quella vista. Era un mondo a parte quello che stavo esplorando, un universo parallelo che si raggiungeva con una semplice immersione. Per quante foto tu potessi vedere, niente ti preparava a tutta quella bellezza. Se un Dio c’era, lì sembrava che avesse fatto un gran bel lavoro. Non riuscivi a pensare a qualcosa di brutto o squallido nemmeno sforzandoti.
Era un monumento che li racchiudeva tutti, un pensiero a come la vita potesse essere potente. Ti dimenticavi di te stesso, nel migliore dei modi.
Restammo a nuotare senza pensieri ben oltre il momento il cui le dita si rattrappirono e persero di sensibilità. Non ci accorgemmo nemmeno della campanella che ci richiamava a bordo. Dovettero usare un fischietto per farci capire che dovevamo tornare.
Risalimmo sulla piattaforma, stanchi e soddisfatti. Ci togliemmo tutto, ci asciugammo e poi andammo dentro a mangiare. L’oceano ci aveva messo un appetito micidiale. Divorammo insalate e salsicce prima di tornare fuori sul ponte. Trovammo una sdraio libera e sonnecchiammo sotto il sole, cullati dalle onde. Alcune ragazze francesi mostravano cosce lunghe chilometri. Alcuni bevevano birra. Era mezzogiorno ed eravamo sulla barriera corallina. Chiudemmo gli occhi.
La nave si rimise in movimento. Andammo avanti per un pezzo. Facemmo un’altra immersione, durante la quale riuscimmo a fotografare il pesce pagliaccio nel suo anemone. Skye partecipava al mio entusiasmo ed era una bellezza mentre scivolava tra i flutti, si immergeva e nuotava rasente al corallo, mi appariva alle spalle facendomi quasi annegare.
Quando risalimmo alla nave per l’ultima volta, eravamo stanchi e soddisfatti. L’equipaggio fece passare intorno dei bicchieri di goon ed un vassoio con formaggio e crackers. Questa era la loro idea di “romantico aperitivo al tramonto”. A noi andava benissimo.
A riva ci accolse un temporale. Zuppi di mare e pioggia, corremmo a ripararci dentro il Crown Hotel. Ci sedemmo ai tavolinetti bianchi e arrugginiti sotto i portici, e ordinammo una birra. Decine di ragazzi e ragazze passavano con buste di plastica piene di bottiglie di birra, superalcolici e cartoni di goon. Quando pioveva, era l’unica cosa da fare. Mi stupii che ai tropici la gente non fosse tutta alcolizzata. Poi pensai come doveva essere un risveglio da stravolti con 38 gradi all’ombra e il 90% di umidità, e la cosa mi sembrò meno sorprendente.
Venne giù anche un po’ di malinconia. Era stata una giornata fantastica alla barriera, ma ora che eravamo a terra ci sentivamo diversi. La storia con Skye era sempre così: finché eravamo in movimento le cose andavano alla grande, ma una volta fermi era finita.
A pensarci bene, quella era anche la storia della mia vita a Oz.

tratto da Latinoaustraliana (Nativi Digitali, 2015, disponibile in formato libro e ebook)
www.marcozangari.it

 

Marco Zangari © 2015

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