Smisurata preghiera

 

Ho sempre trovato struggente (sì, oggi è uno di quei post lì) il finale strumentale della “Smisurata preghiera” di Fabrizio De Andrè.
Tutta la canzone lo è, e il testo è uno dei più riusciti di Faber (e che mi ha costretto a leggere tutta la trilogia di Alvaro Mutis su Maqroll il Gabbiere, che qua e là, con rispetto a Fabrizio, concilia parecchio il sonno).
La frase “Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria/ col suo marchio speciale di speciale disperazione” è da tatuare sull’anima di tutti noi, poveri figli di un mondo che, per capirlo, dobbiamo attraversarlo da cima a fondo con valigie e ricordi e pensieri strappati al sole e alle tempeste.
E quell’invocazione ad un dio –quale che sia- un dio che De Andrè ha sempre negato e sempre cercato, specie dopo l’esperienza del sequestro in Sardegna.
Un dio dal quale De Andrè ritorna alla fine della sua vita, e che non era per niente quello dal quale era partito, che gli avevano insegnato –un dio frutto della sua ricerca, dei suoi errori, delle sue bevute e delle sue puttane, dei pianti e delle risate, e proprio per questo un dio infinitamente più umano.
Un dio interessante come quello che Dostoevskij aveva scoperto davanti al plotone d’esecuzione, o come quello di Van Gogh nel suo campo di grano.
Un dio che qualcuno, distrattamente, potrebbe finire per chiamare amore.

Finito il testo (intorno al quarto minuto), parlano gli strumenti –dapprima concitati, a riprendere i motivi della parte cantata, per poi diradarsi via via come nebbia davanti ad un sole visto per l’ultima volta.
Provate ad ascoltare. Non e’ come se la vostra anima scivolasse dolcemente lungo il fiume, in una sera di maggio?
Non so se è suggestione dovuta al fatto che questa è l’ultima parte dell’ultimo pezzo dell’ultimo album di De Andrè, ma questa canzone mi è sempre sembrata diversa dalle altre. Come se in qualche modo Fabrizio sapesse, e avesse voluto dire tutto in questi 7 minuti.
Le cornamuse lasciano il passo a toni lievi e maestosi, archi che consolano dopo tanto soffrire, alcune pause che possiamo solo provare a riempire con quello che abbiamo.
Questa è la parte che parla della fine di tutti gli uomini –di quegli uomini per i quali, nella prima parte, Fabrizio chiedeva grazia e riscatto “dopo tanto sbandare”, con il Cielo in eterno debito con loro. Quella fine che ci rende tutti uguali, e così umani proprio nel momento in cui cessiamo di esserlo.
Mi fa pensare anche alla sua fine, personalissima, come se la sentisse vicina e volesse farsi due conti.
Archi e armoniche parlano di un uomo che sta lasciando andare via la vita, quella vita che aveva amato così tanto, ma non sembra triste nè spaventato. Mi sembra quasi di vederlo lì, seduto ad un caffè col bicchiere sempre accanto, la sigaretta accesa, mi sembra di vederlo lì che fissa la gente passare, i marciapiedi di Genova, di Parigi e di tutte le strade del mondo, e pensare: dopotutto, non è andata male.
É finita, ma e’ stato bello esserci.
Lo vedo lì a fumare, a ripensare a facce, amori e notti sbagliate. Lo vedo lì a fumare quella sigaretta che lo metterà nei guai, e lui lì ad andare fino in fondo.
Lo vedo cercare di capire cos’è questa morte di cui tutti parlano, cosa vuol dire non esserci più, chiudere il libro e rimetterlo sullo scaffale.
La musica si fa dolcissima, emozionante come un violinista di strada che suona solo con l’anima. Sa di certi tramonti sul mare, di una ragazza incontrata per caso, parla di cene con amici, di bevute con compagni di sbronza, parla di visi di bambini. Lui sempre lì, a fumare quella sigaretta e a guardare con nostalgia tutto quello che dovrà lasciare.
E forse morire è nient’altro che questo: dover lasciare un posto che hai amato, che per te e solo per te ha voluto dire qualcosa, e non tornarci mai più.

Magari è per questo che noi poveri viaggiatori impariamo dai nostri viaggi e sperimentiamo e cresciamo, ma nel frattempo cediamo delle parti di noi ad ogni addio.
Ma in quel momento, lì seduto con la sua sigaretta, tutto questo non importa più. Le esperienze, i chilometri, le delusioni e le sorprese, diventano tutte foto da farsi passare davanti con un sorrisino del tipo, ma guarda tu, quanto tempo.

La musica si fa malinconica e riempie il cuore. C’era un solo modo di onorare quella vita ed era viverla, e quello era stato fatto.
Adesso era ora di spegnere la sigaretta, vuotare il bicchiere e pagare il conto.
La musica va in dissolvenza, poi finisce.
Buon viaggio.

Marco Zangari © 2012
www.marcozangari.it
Pagina Facebook: Marco Zangari

(pubblicato su Hotel Morgana il 27/11/2012)

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