È notte (blues messinese)

È notte e i semafori sono gialli da un pezzo. Il traffico è finito e le macchine la gente le ragazze sono tutte da qualche parte. È notte e i palazzi dormono uno sull’altro, senza niente sapere.
È notte, e c’è ancora tanta strada da fare.
Ci fermiamo sul lungomare deserto. Tutti sono chiusi dentro macchine dai vetri appannati, macchine che si muovono sotto la luna e piano piano cantano la loro ninnananna al contrario ad un mondo che sbadiglia indifferente. Fa freddo, per strada. È nelle ossa, è nel cuore. È notte.
Abbassiamo i finestrini. Fumiamo.
«Dove sono finiti gli altri?»
«Erano dietro di noi» dice Sasà.
«Fa lo stesso» dico, e continuo a fumare. Sento il rumore del mare con dentro i miei anni morti e altre onde, vum vum, vum vum, vum vum.
«Mi sa che mi ha preso, quella tequila»
«A me no»
«Poi ci facciamo una birra al baretto»
Fumiamo in silenzio. Abbiamo anche spento la radio perché non c’era niente da ascoltare. I telefonini, l’orologio nel cruscotto, le luci delle parrocchie, i candelieri nel municipio, le scuole e i tribunali vuoti e invasi dal buio, uno spazio enorme pronto per essere conquistato. Tutto è tuo, e niente lo è mai stato davvero.
«Mi sono rotto il cazzo»
«Pure io» dico. «Pure io»
E’ notte e hai finito le parole, le sorprese, quei piccoli patetici modi di prenderti per il culo che hai trovato dopo anni di liti con te stesso. Stavi tutto il giorno ad aspettarla, la notte, come se stavolta avrebbe cambiato tutto. Che facciamo stasera?, e il mondo cominciava a muoversi. Eri un’ombra, di giorno. Di notte, però, perfino le ombre scomparivano.
«Hai sentito di…»
«Di cosa?» chiede Sasà.
«Niente, niente» dico, e me ne accendo un’altra. Stavo per chiedere cosa ne pensava dell’ultima di Berlusconi, ma a che serve? È notte e a volte si fanno discorsi che durano ore su cosa non va, su cosa non è mai andato. Di notte non sai cosa potrebbe andare meglio, perché tutto è stato fatto. Non esiste un futuro perché se lo sono già preso e a te rimane la sigaretta, quel freddo, i vetri appannati e il vum vum vum vum.
«Che libro stai leggendo, ora?» chiede Sasà.
«L’enciclopedia. Sono a Nar-Opp. Te la consiglio»
«Andiamo»
E’ notte. Vai. Vum vum vum.

E’ notte e tutto è chiuso. Sei arrivato tardi, come sempre. Le serrande si abbassano in un unico ultimo rantolo. Le luci si spengono una ad una, le puoi vedere morire riflesse nel cielo nero catrame. La città rotola verso il mare, portandosi con sé il suo Duomo, il suo Nettuno, le sue chiese sprofondate. Il terremoto non sembra essere mai finito da queste parti. Facciamo silenzio dentro noi stessi, un silenzio che si prepara a una risata che non vogliamo, che vomiteremo per darci un’aria di sopravvissuti, di quelli che stanno ancora fuori quando dovrebbero essere già dentro da un pezzo.
Ma il baretto è aperto, faro nella notte, tempo svanito in un’attesa che non verrà mai ripagata. Tutto quello che resta sotto il tappeto viene spazzato e sbattuto davanti a questo marciapiede pieno di bicchieri mozziconi sputi.
Tutti hanno la faccia di qualcuno trasportato da quel vum vum vum. Ti guardi intorno e vedi la città che conosci, che sai a memoria e che odi di giorno, ma di notte non puoi odiarla perché non esiste, non è una città davvero, è solo un pugno di fantasmi sulle macerie rimaste dall’ultima onda anomala, dall’ultima peste che ha lasciato vuote le case abusive e quelle popolari, le baracche e i condomini gialli sporchi coi loro serbatoi sul tetto per le continue siccità dell’anima. Quella è una città che di notte prova ad essere malvagia ma fa solo ridere, perché la parte cattiva era sotto il sole, la faccia strafottente, la faccia che ti accoltella col sorriso. Quello che vedi ora è un finto duro che vorrebbe vincere un’insonnia lunga un millennio e lasciar perdere tutto.
I graffiti sui muri sembrano più chiari nel buio, ma i loro messaggi spariscono. Si alza una leggerissima foschia. Ti cola il naso, ti tocchi il pacco, e ne ordini un’altra al baretto.
La cameriera è stanca. Ha mollato la scuola, e il sogno di diventare parrucchiera è già finito. Il suo ragazzo sta in uno di quei paesini che di notte sembra un presepe dimenticato. Le dice di amarla solo quando la scopa. La notte qui conosce una sola posizione, sempre quella.
Incontro qualche faccia. Nessuno ha realmente qualcosa da dirsi, così si parla della partita, degli scontri, di chi ha rotto il culo a chi. C’è musica, ma di notte può disturbare chi sta dormendo nella sua eternità al cloroformio, tra viali e corsi di formalina. I balconi rigurgitano gerani e occhi, mentre lunghe strade scure si srotolano verso il cielo. Sì, una birra, ma non troppe, e una canna, ma non troppe, e una vita, ma non troppa. Una piccola vita, magari.
Il sapore di quel cocktail orribile che non va più via.
Incontriamo Edoardo –e dove te ne vai, Edoardo, dove?
«Stavo con questa qui–Giovanna, non so se ti ricordi…»
Mi ricordo, Edoardo, come dimenticarlo?
«Niente, oggi mi chiama e mi dice che è finita, che non vuole più vedermi. Dice che si vede con un altro»
E’ notte ed Edoardo è ubriaco. Mi accendo una sigaretta, gliela offro. Lui fuma, io fumo. È notte, e di stelle nemmeno a pagarle.

E’ notte e cammino in quelle vie dietro il cinema, quelle dove di giorno non si trova mai parcheggio e adesso invece non frega niente a nessuno. Di tutto quello che c’è fuori di notte, importa poco. Le cose importanti sono state chiuse dentro, col lucchetto e la doppia mandata. Chi non è riuscito a fare in tempo ad entrare resta nella notte, a portarsene avanti un altro pezzo. Non è nemmeno l’alba, quello che aspettiamo. L’alba è semplicemente un’altra fine.
Barcollo in quel buio senza fine, il parco con le anatre morte davanti a me. Guardo la città, che è la stessa dove lì ho fatto questo lì quest’altro, un’avventura dietro ogni angolo, noiosi aneddoti in fila, ma di notte tutte le storie diventano una. Di notte non c’è un vero passato, solo una massa nera che speri solo sia benigna.
È notte e ti dimentichi, e dopo che hai dimenticato provi a trovare dove pisciare. Con me Berto. S’è bevuto l’anima monosorso, Berto. Esattamente come la settimana prima e quella prima ancora. Tutti ridono quando Berto beve tanto. Dice che ha un amore che lo aspetta da qualche parte, e intanto beve e poi guida fino a casa e il giorno dopo non ricorderà dove ha parcheggiato.
«Mai baciato una» dice. «Ma ci credi? Alla mia età?»
Ci credo, Berto. Lo sappiamo. Sappiamo come va, di notte come di giorno.
Ci tiriamo fuori il cazzo e pisciamo. È una pisciata lunga, corrosiva, piacevole, notturna. È notte e si prende quel che si può.
Guardo il parco dove andavo da bambino. Mi accendo una sigaretta mentre con una mano tengo il cazzo. Berto si piscia tutto addosso, e nemmeno se ne accorge. Passa una macchina. Suonano, urlano, insultano.
È notte.

E’ notte e perfino al baretto hanno spento la musica e qualcuno ha deciso un’ora in cui bisogna andare al letto, ma se il sonno non viene? Che fai?
Ci dobbiamo alzare presto domani, sussurra la città nelle sue budella di fogna, nei suoi prati sporchi, nei suoi divieti di sosta e nell’asfalto che è ancora tiepido dalla giornata prima. Camminiamo in bilico sulle sue cicatrici, sui lividi che popoli diversi hanno lasciato sulla sua faccia babba per poi abbandonarla lì, in riva al mare, nuda e sporca, pronta ad un altro aborto.
Io Sasà e Toni facciamo il puttan tour. Il lungomare dalla parte della città è ancora più desolante. Studi dentistici e mercati del pesce illuminati dalla pisciata arancione di qualche neon. Le pubblicità di liquori che non sono più nemmeno in commercio. E le puttane.
È notte, e tutto va con loro.
Toni ci dà le indicazioni. Fermiamo la macchina. Ecco Denise.
Come va?, chiede Denise. Cosa fate nella vita?, chiede Denise. Com’è andata la serata?, chiede Denise.
Noi rispondiamo come possiamo, come sappiamo, e ci parliamo uno sopra all’altro e lei sa che non beccherà niente da noi nei due sensi, però lo stesso parla e ci fa domande e poi racconta la sua storia e allora io le offro una sigaretta e anche io me ne accendo una e ora siamo in Nigeria fa caldo non c’è da mangiare è giorno sole terra e sangue, ma poi è notte di nuovo, una notte con noi dentro a far finta che sappiamo nuotarci, in tutto quel nero, e Denise ci dice ciao perché c’è un cliente e noi sappiamo fare solo sì con la testa. Denise va a dare un po’ del suo amore a un tanto all’ora a questo sconosciuto, e noi ci accontentiamo dei sorrisi che ha dato gratis a noi, come nessuna fa da tempo.
«Voleva vendere» dice Toni.
«Anche le altre. Ma noi non potevamo comprare»
Salutiamo tutti e ripartiamo mentre un cazzo nuovo entra dentro Denise che sogna la sua casa, Denise che si chiede come sta il figlio, Denise bella e giovane Denise anziana e piccola Denise grande come questa notte.
E’ notte, e vorresti solo chiudere gli occhi. Ora, per sempre.
Vum Vum. Zzz.

E’ notte, ma bisogna fare finta che non lo sia del tutto –e comunque, basta dormirci su. Così dicono. Sasà mi riaccompagna a casa, l’ubriachezza è andata, Denise si è fatta scopare da uno cinque dieci, qualcuno è morto nel mondo, qualcuno è nato, ma stranamente pensi solo a quello che è morto. Non c’è più un suono vero, in questa notte. Tutto sembra rimbombo ed eco malata. Le autostrade sono lì con le luci dritte e i caselli alla fine dei tuoi sogni. Davanti, una città che non ha smesso per un secondo di morire.
Sto per scendere, ma Sasà mi ferma.
«Lei» dice. «Non me la riesco a togliere dalla testa»
Mi accendo una sigaretta. Com’è vero che ogni sabato Berto rischia la vita e Denise prende qualche cazzo che sa ancora di pisciata al bar, così Sasà fa il solito discorso su Marina. Non è che la ama, ma vorrebbe averla vicina. Non è che l’ha respinto, è che vuole che restano amici.
«Non vuole nemmeno più che siamo amici. Dice che l’ho stufata»
E poi piange Sasà, mentre io me ne accendo una e i cassonetti accanto puzzano perché c’è sciopero, l’acqua manca nel pomeriggio, il sindaco è sotto processo, il mare è inquinato, non c’è lavoro, e Sasà piange.
È notte.
Quando Sasà smette e si asciuga il naso io attacco a parlare, e la macchina si riempie delle mie parole. Lo stereo passa le stesse canzoni di sempre. Fumo un’infinità di sigarette. Muoio un poco.
Alla fine esco dalla macchina, vado verso casa. Qui un tempo era tutta campagna. Prendo il telefonino e guardo. Ci resto di merda. Non è l’ora. È la data.
Com’è possibile che sia già così tardi nella mia vita? Nella vita di tutti?
Sasà riparte e io mi siedo per terra, sul marciapiede, i piedi sulla strada deserta. Non c’è un suono, non c’è un essere umano, non si vede nemmeno la luna. Solo nero dappertutto.
E’ notte, e sembra non finire mai.

 

 

Marco Zangari © 2007

No Comments

Post A Comment