“L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio”, Haruki Murakami

 

Nel più profondo del suo spirito, Tazaki Tsukuru capì. A unire il cuore delle persone non è soltanto la sintonia dei sentimenti. I cuori delle persone vengono uniti ancora più intimamente dalle ferite. Sofferenza con sofferenza. Fragilità con fragilità. Non c’è pace esente da grida di dolore, non c’è perdono senza sangue sparso sul terreno, non c’è accettazione che non nasca da una perdita. Perché alla radice della vera armonia ci sono dolore, sangue e perdite.

Dopo le notti insonni passate sul “Potere del cane” di Winslow, cercavo qualcosa che potesse mantenere un buon livello, così ho deciso di provare con Murakami, che di solito non delude mai le aspettative.
“L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio” (Einaudi) è stato un altro centro. Con Murakami non si sbaglia mai, anche quando il prodotto finale è magari un po’ oscuro, come capitato con “Kafka sulla spiaggia”.
Questo romanzo invece riporta il miglior Murakami, a suo agio tra queste pagine ben descritte, dosate alla perfezione, estremamente leggibili e cariche di riflessioni accennate, mai appesantite, che lasciano al lettore il compito (la possibilità) di approfondirle o meno.
La storia prende le mosse da un incontro che Tazaki Tsukuru fa a Tokio con una donna, Sara. Questo incontro lo porta a parlare del gruppetto che Tazaki frequentava ai tempi del liceo nella sua città d’origine. Il gruppetto era composto da altri quattro ragazzi, due maschi e due femmine, ognuno con personalità e aspirazioni molto diverse. Il gruppetto, incredibilmente affiatato, aveva resistito anche quando, alla fine del liceo, proprio Tazaki aveva sorpreso tutti ed era andato a studiare all’università di Tokio, lontano da lì.
Tutto sembra andare bene finché un giorno uno degli amici chiama Tazaki al telefono e lo informa che non è più il benvenuto nel gruppo. Senza una spiegazione, senza un motivo.
Il libro ci mostra come Tazaki, molti anni dopo, spinto da Sara, decide di fare luce sul perché il gruppetto aveva deciso che proprio lui –il più tranquillo, il più accomodante di tutti- fosse stato fatto fuori. Investigando –compiendo il suo personale pellegrinaggio- scoprirà la sconvolgente verità dietro quell’abbandono, e questo gli permetterà di capire anche tante cose di se stesso.

Mi sono dilungato un po’ sulla trama (e spero di non aver ceduto alla tentazione dello spoiler) perché la premessa del libro, come spesso in Murakami, è tanto semplice e comune quanto potente. Oltre la storia in sé, si nasconde molto di più.
Non è un caso che l’aggettivo “incolore” si trovi anche nel titolo. Gli altri quattro membri del gruppo del liceo, infatti, possiedono tutti nomi che all’interno hanno anche nomi di colori. Takazi Tsukuru è invece l’unico che non lo ha. Il suo nome significa infatti “costruire”. La mancanza di colori, di contrasto invece a quelli netti, vividi dei suoi ex-amici, lo perseguiterà per tutta la vita.
Perché questo romanzo è un libro di colori, che sono quelli dell’adolescenza, di quando ancora c’è tutto da fare. Murakami parla di linee d’ombra, di quella fase delicata, interessante e disumana che è la fine della fanciullezza e l’inizio dell’età adulta, lì dove i sogni enormi dei ragazzi vengono messi al muro, misurati, e spesso freddati senza pietà.
Murakami ci ricorda quanto splendido e crudele (cit.) possa essere quel periodo della nostra vita, e quanto sia difficile attraversarlo. Non usa l’occhio della nostalgia, ma cerca di far rivivere quei traumi che sono propri di quell’età di passaggio, che ci portano a non sapere più chi siamo, a non riconoscere nemmeno più il corpo che sta cambiando allo specchio ogni giorno.
Il tutto accompagnato dalla colonna sonora (immancabile nei libri di Murakami), che in questo caso è il “Mal du Pays” di Frank Lizst, una melodia bella e malinconica, che parla di cose perdute per sempre, di panorami che ci siamo lasciati indietro, di facce che non rivedremo più.

No, pensò, non sono né tranquillo né cool, e non seguo il mio ritmo. È soltanto una questione di equilibrio. Sono semplicemente abituato a distribuire il peso che mi porto addosso. Può anche darsi che agli altri questo sembri indifferenza. Ma non è un’impresa semplice. Richiede più sforzo di quandto l’apparenza lasci credere. Inoltre, anche se si riesce a raggiungere l’equilibrio, non significa che la massa complessiva che pesa sul fulcro diventi più leggera.

“L’incolore Tazaki Tsukuru” è un libro delicato come quella melodia, fatto di incontri, riflessioni, spazi vuoti, e parole che scivolano leggere.
Alla fine vi troverete come dopo l’ascolto di un pezzo classico carico, breve, che vi piacerà senza che capiate subito perché. Che vi sembrerà familiare, a volte consolante, a volte spiazzante. Che vi rapirà.
E che non vi deluderà.

 

Marco Zangari © 2015
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