Arrivederci Roma

La incontravo alla fine di ogni estate. Ogni volta fino all’ultimo non sapevo se lei sarebbe stata lì ad aspettarmi. Se addirittura si potesse ricordare di me.
Tornavo in Sicilia, nella mia vecchia città, e provavo a dimenticarmi di lei per qualche settimana. Era facile, quando era estate e vedevi il mare dalla tua finestra. Lì a Roma non c’era il mare.
Ma era anche vero che lì in Sicilia non c’era lei.
Così tornavo, fedele e illuso, sudato e bastardo, tornavo ogni volta. Tornavo da lei che aveva continuato a vivere da sè per tutto quel tempo. Sarebbe stata diversa, stavolta? I problemi sarebbero ricominciati? Era l’anno giusto per tutti e due?
Erano le domande che mi facevo in treno, schiacciato insieme agli altri che come me rincorrevano le loro storie un chilometro dietro l’altro. Tutte le risoluzioni prese in quei mesi di lontananza sparivano in un istante.
Era una morte consapevole, quella che mi davo, e ne ero assolutamente felice.
Quando il treno cominciava a sbuffare e a insinuarsi negli ultimi raggi di sole di quei settembre appiccicosi di città, ritrovavo tutto nella mia testa. Riecco quel misto di familiare ed estraneo. Riecco la mia città, anche non ero nato lì. Lo sapevo io e lo sapeva lei. Non era una cosa che si poteva ignorare. Nemmeno lo volevo, in fondo.
Eppure non mi sentivo in niente diverso dagli altri.
Fuggivamo, e Roma ci aveva accolto. A volte per poco, a volte per tutta la vita. La Grande Svolta, la Lotteria, l’Occasione di Tutta Una Vita, ecco cosa ci prometteva Roma nei nostri sogni di emigranti perenni.

Ma gli inizi non erano stati facili.
Mi ero trovato con la mia valigia in quella stazione che avrei imparato a conoscere bene negli anni. La conoscevamo bene tutti, noi popolo con la valigia in mano.
Non sapevo da dove cominciare e lei non era stata di nessun aiuto, quando alla fine l’avevo incontrata. Anche se non volevo ammetterlo sapevo che ero venuto fin lì solo per lei, e non per i motivi pratici che mi avevano spinto a salire su quel treno. Mi sembrava dovesse capitare uno di quegli amori a prima vista di cui si sente sempre parlare.
Ma lei forse quel giorno ci vedeva male. Mi aveva stretto sbadatamente la mano mentre io speravo disperatamente che non sentisse quant’era sudata la mia. Aveva ascoltato il mio nome con l’espressione di chi sa già che non lo ricorderà mai. Si era lasciata scappare due parole di circostanza e poi era andata via, proprio mentre il tramonto afoso si faceva sera.

Dopo di allora non l’avevo più vista per mesi. Avevo cominciato a pensare che fosse stato uno dei tanti incontri che si fanno nella vita, quando per una sera soltanto ti dici è lei e poi vai via senza nemmeno sfiorarla.
Portavo avanti la mia nuova vita in quella città. Mi sentivo pieno di energie, anche se ancora frastornato. Mi piaceva l’aria che si respirava in strada. Mi piaceva quel cielo, che mi ricordava un po’ il mio dei giorni migliori. Mi piaceva la gente, feroce di giorno, pacifica di sera. Mi piacevano le ragazze, fresche e meravigliose e da farti innamorare ad ogni fermata d’autobus. Mi piaceva tornare dall’università alla sera e alzare gli occhi per aria, pensare a dove mi trovavo, sentire il mondo e capire che c’ero anch’io lì in mezzo.

Poi un giorno la incontrai nuovamente. Per tutti quei mesi d’inverno avevo rinunciato a lei. Meglio così, mi dicevo. Tanti me ne avevano parlato, e forse proprio per questo la cosa mi attirava poco. Non volevo passare dov’erano passati in tanti.
Ero all’antica, in queste cose.
Quella sera me ne andavo in giro in centro. Non ero uscito molto, durante quel primo inverno. Avevo imparato presto che quella città andava presa un pezzo alla volta, e io ero stato troppo occupato a digerirmi il mio. Adesso venivo fuori per la prima volta. L’autobus che attraversava la città passando per la Tiburtina, le strade buie e vive dietro Termini e alla fine lì, in via del Corso. C’ero stato altre volte, mesi prima. Mai di notte, però.
Mi sembrò bellissima.
Mi incamminai coi miei amici. Eravamo tutti allegri. Passammo vicino al Vittoriano e poi scivolammo verso Largo Argentina. Ci avventurammo nei marciapiedi illuminati con le auto che sfrecciavano verso tutti i posti. Guardammo ogni cosa, e ogni cosa sembrava guardare noi.
Alla fine capitammo a Campo de’ fiori. I ristoranti affollati, le luci, le bottiglie di birra vuote rotolavano e davano il ritmo alle voci romane e inglesi che salivano leggere verso le nuvole.
E lì nella piazza c’era lei.
Lei che mi aspettava in quell’aria dolce, fragrante, lei sotto i lampioni che puntellavano la notte, lei tra i palazzi antichi e le facce da cinema, le comitive ubriache e gli innamorati sorridenti, lei sigaretta accesa e nient’altro, lei che se ne stava lì spavalda e ingenua, santa e puttana. Lei che mi veniva incontro, e io capivo che per tutti quei mesi piovosi non avevo fatto altro che aspettare lei.
Nessuno parla mai di amore a seconda vista ma fidatevi: funziona lo stesso.

Ci cominciammo a frequentare. Ero cotto, un innamorato un po’ ansioso. Lei non mi facilitava le cose. Ogni tanto spariva, e io ripiombavo in quelle giornate grigie e fredde che già conoscevo. Alla fine tornava e io sapevo che non potevo arrabbiarmi con lei. Mi rendeva felice. Ero giovane, allora.
Ci incontravamo a San Lorenzo e insieme camminavamo per ore, fermandoci a parlare con tutti, dividendo il vino in bottiglioni nelle scalinate della piazzetta. Ci trovavamo il sabato pomeriggio a Piazza di Spagna, a guardare i turisti che si godevano anche loro la primavera romana, che è sempre un po’ più primavera che altrove, e facevamo finta di poterci permettere uno dei ristorantini poco distanti. Andavamo a girovagare a Testaccio, entrando e uscendo dai locali. Il Primo Maggio andammo insieme al Concerto a San Giovanni. Ci scoprivamo un po’ a vicenda.
Stavo bene.
Stavamo bene, in quelle primavere lì.

Poi arrivava l’estate e qualcosa lentamente cambiava. Lei si faceva più vera e più crudele. Ci incontravamo solo la sera.
Qualche tempo dopo partii. Lei venne a salutarmi a Termini. Ci stringevamo le mani tra la gente sudata che si sventolava col giornale e fumava lungo i binari e ricordavamo i mesi passati insieme. Mi dimenticherai?, chiedeva lei.
Mai, dicevo io.
E lo pensavo davvero.

Poi tornavo sempre, come detto, e non la dimenticavo mai.
L’inverno quell’anno fu molto diverso dal precedente. Tutto era ancora nuovo. Sembrava che io e lei avessimo tantissimo da fare insieme. Sembrava non dovesse finire mai.
Ogni tanto lei spariva ancora e io mi sentivo di nuovo abbandonato a quelle giornate umide e scure. Non potevo fare altro che aspettarla. Erano i momenti in cui avevo il sospetto che il nostro amore fosse a senso unico, da me verso lei. Qualche volta arrivai a pensare di lasciar perdere tutto. Andare via, dimenticarla, ricominciare. Ma poi il sole arrivava sempre e io mi affacciavo alla finestra chiedendomi, come potrei mai?

Passarono gli anni. Ormai facevamo coppia fissa, nonostante i continui alti e bassi. Lei cominciò a farmi entrare nella sua vita. Mi presentò qualcuno dei suoi tantissimi amici, condivise con me i suoi interessi e le sue storie. La nostra intimità però non fu mai totale. Sapevo che lei era troppo. Non sarei mai potuto arrivare a conoscerla davvero. La cosa a volte mi affascinava, altre mi turbava e basta.
Stavamo cambiando insieme, ma non alla stessa velocità. Lei sembrava sempre sul punto di fare quel passo per crescere davvero ma poi si ritraeva all’ultimo, come bambina viziata o forse solo impaurita. Si rifugiava fin troppo spesso nel suo passato, del quale non smetteva mai di parlare. Amavo la sua storia, ma sapevo che non poteva essere tutto là. Le parlavo del presente –il presente, capisci?- e lei faceva finta di non capire.
Le chiedevo di aprirsi, e lei invece si rinchiudeva.
Un po’ la capivo, anche. Aveva avuto amori sbagliati, come me, come tutti. Era rimasta scottata. C’erano stati aborti di cui non voleva parlare mai. Aveva ogni tanto quello sguardo fisso lontano e quei silenzi di chi non ha mai dimenticato certe cose. Sul viso portava ancora i segni di tante storie che mi raccontava, e di molte altre che non osava dirmi.

Ma avevamo i nostri momenti buoni. Quei pomeriggi al Pincio, quelle corse a Villa Ada, quelle gite ai Castelli. Le bevute a Trastevere.
Capitavano poi le serate magiche. Tutti ne hanno avuta almeno una, da quelle parti. E quando capitavano, non te ne scordavi più. Tornavi a casa coi piedi leggeri sui sampietrini e gli occhi mezzi aperti mezzi ebeti. Perfino il notturno sembrava un bel posto dove stare. Scivolavi fra le strade addormentate.
Sapevo che c’erano diverse città migliori di Roma per quando eri felice, anche se nessuna sapeva essere spietata come lei quando stavi a terra. Lo stesso, quando ti capitava la nottata buona, scordavi tutti i suoi peccati. C’eravate solo tu e lei, e quei milioni di sogni sotto il cielo di maggio.

Poi accadde qualcosa. A dire il vero non so nemmeno io cosa. Lo avvertivo chiaramente, però. Sarà che mi ero stancato dei suoi abbandoni e dei nostri ritorni. Sarà che i suoi interessi non mi dicevano niente, o forse era stata lei a non interessarsi mai ai miei. Sarà che aveva cominciato a farmi pesare il fatto di non essere nato là come tutti. Sarà che ero stufo di pagare ogni giornata sì con cento no, ogni mattina di sole con settimane di pioggia. Sarà che la distanza, forse, era davvero troppa.
Sarà che forse dove c’è troppo passato a volte non resta più spazio per il futuro.

L’estate era finita e io sentii che tornavo senza voglia. Non che mi fosse indifferente. C’era stata troppa passione, tra noi, perchè tutto si risolvesse pacificamente adesso.
Piano piano l’amore che avevo provato si era trasformato nel suo opposto.
Era noia all’inizio, e insofferenza. Ero molto meno disposto a sopportare le sue mancanze, i suoi ritardi, le sue sparizioni. Quei difetti che un tempo la definivano e le davano quel qualcosa che aveva solo lei e basta, e che mi avevano affascinato così tanto, adesso li vedevo per quelli che erano. Quello che di lei mi faceva stare a bocca aperta, ora mi portava solo a sbadigliare. Quello che mi portava a lottare per lei fino in fondo, adesso lo trovavo solo un’altra causa persa.

Sentivo gli inganni e le delusioni che avevamo disseminato nella nostra storia. Lei avvertiva questo cambiamento in me. Solo allora si scuoteva dal suo torpore egocentrico per chiedermi di perdonarla, invocando ancora quel passato meraviglioso e dannato che si portava dietro. Io restavo in silenzio. Capivo le sue rughe, ma non ero più disposto a spiegare tutto con quello. Ero ancora giovane, io, e comprendevo solo adesso che lei non lo era più.
Un giorno presi un bus da dove abitavo verso il centro per incontrarla. Ci impiegammo una vita ad arrivare tra il traffico, le deviazioni, le fermate e le macchine parcheggiate male. L’autista bestemmiava a tutto andare, la gente sudava ed era nervosa. Io anche mi sentivo molto irritato. Guardavo fuori dai finestrini, così come stavano facendo un paio di turisti giapponesi seduti accanto a me, e non riuscivo a trovare la differenza tra me e loro.
Anni lì, ed ero ancora un semplice turista.
Quando arrivai la vidi da lontano e quasi non la riconobbi. Mi sembrò una perfetta estranea, e così mi sentii anch’io.
Fu l’ultima goccia.
Tornai indietro. Risalii sull’autobus. Mi sentivo come una voragine dentro, nera e vorticante. Sapevo che sarebbe finita come erano finiti tanti altri amori. Lo stesso, era dura. Mi chiesi se lei mi aveva mai amato. Mi trovai dolorosamente a nascondermi la verità.
Per lei la mia fuga non sarebbe stata un problema. Ne faceva innamorare tutti i giorni, a centinaia. Gente nata là, gente che ci andava a vivere, altra solo di passaggio. Sapeva fare il suo lavoro, lei. Avrebbe trovato altri a cui succhiare il proprio amore, senza che nessuno la meritasse mai davvero. Forse nemmeno io.
Il mio bus arrivò al capolinea. Scesi, m’infilai nella prima agenzia di viaggi e comprai un biglietto per il posto più lontano da lì che potevo. Sola andata.
Tornai a casa e feci le valigie.
Ero molto felice di partire, e di andare proprio lì dove stavo andando. Viaggiare era l’unico modo in cui riuscivo ad innamorarmi di continuo e vivere.

Quando arrivò il giorno della partenza presi un taxi e cercai di non guardare dai finestrini. Nemmeno quando stavo per imbarcarmi ai voli internazionali diedi mai un’occhiata dietro. Non volevo sapere se lei era lì. Sapevo quel che sapevo. E come le avevo detto tante volte, sapevo che non l’avrei mai dimenticata.
Arrivederci, amore mio.
Goodbye, e au revoir.

 

Marco Zangari © 2009

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