All the best – Storie Latinoaustraliane

(Questa storia è stata originariamente pubblicata su Hotel Morgana il 28 dicembre 2008. La storia integrale si può trovare su “Latinoaustraliana” (Nativi Digitali, 2015), disponibile in cartaceo e ebook su Amazon).

 

Non riesco a dormire. Mi giro, mi rigiro, poi vado fuori a pisciare. Una rana si è impadronita del bagno e non fa entrare nessuno, così si fa pipì fuori guardando le stelle (e stando attenti che nessun serpente ti morda il culo). In realtà è già quasi l’alba, lì dietro i campi di mango, un panorama che ho visto milioni di volte in queste settimane. Oggi, però, è l’ultima volta.
Faccio colazione mentre i coreani dormono ancora, poi vado fuori a recuperare lo zaino nel capannone. Lisa, la capa, mi guarda stranita – “come, tu qua?”. Le dico che sto per andare. Ci abbracciamo e salutiamo ancora. Rivedo Agnes e poi Alison, le mie amiche aborigene, e resto un po’ a parlare. Il tempo vola, però, e devo andare. Torno a casa –a quella che è stata la mia casa per un po’- e lì c’è il saluto più difficile, perchè anche se col compare ci siamo salutati migliaia di volte, questa volta sembra una beffa. Ma la sua ragazza si trasferisce in casa stasera, così sono sicuro che non sentirà troppo la mancanza.
Mi incammino verso la casa di Frank, il mitico farmer. La moglie Cherie dovrebbe darmi un passaggio, ma è in ritardo, così mi siedo nel giardino e aspetto. Saluto la figlia Chakira e la ringrazio ancora del giro che mi ha fatto fare ieri sul 4WD. È stato un giro di quelli che ne vale la pena. Una di quelle piccole cose per cui sono venuto qui in Australia. È stato lì, anche, che per la prima volta ho visto quella terra rossa che ho sempre sognato, terra di bush e outback, terra di deserto, terra dell’Australia come l’ho in mente fin da bambino.
Alla fine Cherie viene –dopo che Frank le smadonna dietro un paio di volte- e partiamo. Lei deve prendere la figlia all’aereoporto di Cairns. La figlia arriva alle otto e mezza. Il nostro villaggio e Cairns distano quasi due ore di macchina. Guardo l’orologio, e sono quasi le sette e mezza.
Montiamo in macchina.
“Ti avverto Mattia, che ho la guida un po’ pazza. Non sono in molti a voler venire in macchina con me”
No worries” dico, e allaccio bene la cintura mentre lei si lancia sulle strade completamente deserte a oltre 140, saltando e sobbalzando e facendo strani rumori in curva. Mentre corre come una pazza mi racconta la sua storia, che come molte delle storie della gente di questo posto di frontiera, questo Far West del 2008, si fa ascoltare e qualche volta ti fa fare anche Oohhh. Mentre sgusciamo in mezzo alla foresta pluviale le dico che non ho comprato nessun regalo di Natale. Lei schiocca le dita e dice che lì è pieno di piantagioni di caffè –sarebbe carino tornare a casa con un pacco di originale caffè dei tropici. Guarda l’orologio, e vede che siamo già in ritardo di una vita.
“Oh beh, mia figlia mi conosce, ci è abituata”
Così questa semi-estranea sgomma nelle strade del mattino per portarmi a comprare qualcosa per casa, mentre la figlia sta atterrando in quel momento. Non so cosa dire così non dico niente, ma mi gusto tutto.
Per suo sommo dispiacere, le piantagioni non aprono fino alle 9. Niente da fare, mi dice, con sincero rammarico.
Corriamo e corriamo e alla fine spunta fuori la città, il mondo civile, le case i supermercati gli Hungry Jack i MacDonald. Dopo 3 settimane nel bush, i miei occhi si devono riabituare a tutto questo. Ora capisco perchè Frank, uomo che nel bush c’è nato e cresciuto, non si vuole allontanare nemmeno per andare nel villaggio vicino. La vita del bush ti entra dentro, ti invade gli occhi, ti stordisce e toglie il respiro, ti fa sudare chili e chili, quasi ti ammazza, e ti fa innamorare.
Recuperiamo la figlia all’aereoporto con solo mezz’ora di ritardo. Lei è incazzata. Parliamo un po’ della sua carriera di cantante folk, dei suoi viaggi a Nashville. Alla fine mi lasciano al centro commerciale di Cairns –il più grande, e anche l’unico. Cherie si gira e mi dice, all the best, Mattia.
Grazie, dico io. Ne ho bisogno.
Appena sceso dalla macchina, riecco l’aria dei tropici che ti assale come una febbre buona e non ti fa respirare. L’umidità non è tremenda come altre volte, ma lo stesso fa impressione. Quando entri nel centro commerciale, poi, l’aria condizionata ti sega la gola in un secondo.
Appena dentro vedo questa massa di gente, vedo le facce, sento le voci. Mi sento stranito. Tutto mi sembra nuovo. Sembro davvero sceso dalle montagne. Mi chiedo se 3 settimane bastino per diventare almeno un po’ bushman. Passeggiando mi rendo conto che tra 3 giorni è Natale. Non ci avevo per niente pensato. Il caldo afoso non aiuta, nella mia idea europea di bianco Natale. La folla che fa shopping non mi piace. Non è Sydney, e di certo non è Roma, e i personaggi tropicali fanno un po’ ridere per il loro abbigliamento, ma lo stesso non mi trovo a mio agio in mezzo a questa folla. Decido di uscire sotto il sole con le valigie. Vado verso l’Esplanade, un po’ vuota in questo lunedì d’estate. Nella Laguna ci sono poche persone. Ho caldo, così mi spoglio e mi metto a mollo anch’io. Il cielo però è nuvoloso, e l’umore non dei migliori. Sono felice di tornare, ma mi è anche dispiaciuto andar via. Sul braccio posto ancora i segni della raccolta del mango. I muscoli sono ancora indolenziti. Una faticaccia, ma 3 settimane sono volate, tra il cazzeggiamento al lavoro e le bevute con Agnes e le altre la sera. Quella birra sul verandino la sera dopo lavoro col compare aveva un suo valore, un suo gusto. Niente di che, ma ne valeva, credetemi.
Esco dalla Laguna, mi asciugo. Vado in un ristorante a fare il primo pasto vero dopo giorni. Niente più fottuti panini al tonno. Dopo passeggio sul lungomare, guardo i segnali di pericolo coccodrilli, osservo i granchi che si muovono a migliaia nella baia.
Torno al centro commerciale per vedere se riesco a fare un po’ di shopping natalizio anch’io, ma appena rivedo quella folla cambio idea e salgo sul primo taxi verso l’aereoporto. Sono in un anticipo bestiale, ma non m’importa. Non voglio dividere quest’ultima giornata con loro.
Cerco di parlare un po’ con l’autista, un inglese espatriato un po’ snob che sostiene che non c’è caldo a Cairns –come tutta la popolazione qui. Guardo il termometro segnare 33 gradi, e poi torno a fissare fuori dal finestrino.
All’aereoporto scendo dalla macchina e l’umidità mi assale. Mi tocco la barba di giorni e giorni. Respiro a pieni polmoni, per l’ultima volta, quest’aria tropicale e la trattengo un po’ lì, come a fare scorta. All the best.
Adesso non vedo l’ora di rivedere la mia Sydney. Ho delle storie da raccontarle, e da farmi raccontare. Ho delle altre cose da fare.

Non vedo l’ora.
 

Marco Zangari © 2008

www.marcozangari.it

Pagina Fb: Marco Zangari

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