“Viaggio al termine della notte” – Louis-Ferdinand Céline

Ci sono quei libri che –sì insomma, quei libri che ti dici, ma chi me lo fa fare? Che ti viene voglia di chiudere tutto, dare un bacio d’addio a quei 20 euro e sbattere la copia lassù a prendere polvere fino alla fine dei tempi.
Capita. Così come capita dopo qualche pagina di Henry Miller. Dostoevskji poi rischi di non aprirlo nemmeno, sconfortato dalle dimensioni del mattone.
Eppure, così come capita a chi si addormenta dopo venti minuti di “Apocalypse now”, rischieresti di perdere qualcosa di buono.
In questo caso, di maledettamente buono.

E’ vero: se un libro è un capolavoro, tra le sue doti dovrebbe avere anche quella di tenerti incollato alla pagina e non farti scappare più. In teoria. Nessuno però direbbe nemmeno sotto tortura che è rimasto rapito dalle pagine dei “Fratelli Karamazov”. Eppure si tratta di capolavoro, non ci sono cazzi.
Cèline è un po’ così. Lo devi seguire, mentre barcolla tra le stradine della periferia di Parigi, o ammalato in mezzo alle foreste d’Africa. Lui non ti aspetta. E parla, Cèline, dio quanto parla. All’inizio ti viene voglia di fermarlo. Poi però vorresti che parlasse per sempre.

Lui parla e tu lo capisci, anche in mezzo ad uno stile tutto suo, spigoloso, parlata che diventa scritta, pensiero che viene vomitato sulla pagina, frasi e frasi che ti si srotolano davanti agli occhi con una potenza che non troverete da altre parti.
Perchè “Viaggio al termine della notte”, come la bumba buona, ne vale davvero la pena. Brucia, raschia la gola, e ti ubriaca senza che nemmeno te ne accorgi.
Cèline parla tanto, ma dice tutto quel che deve dire. Tutto quello che c’è da dire, non trascurando niente. Non vuole convincerti delle sue ragioni, lui. Non vuole che fai il tifo. Se ne fotte, lui. Se vuoi lo ascolti, sennò aria, via, a diventare uno dei tanti falliti del suo libro, di quelle vittime peggio degli aguzzini, di quelle cavie in un esperimento andato a male che si riempiono la bocca di parole come guerra amore onore vita dio.

Non si oppone, Cèline, a questa pericolosa idiozia che permea la sua storia e il nostro secolo. non picchia, ma fa qualcosa di infinitamente più violento: ride.
Cèline ride. Ride con disperazione, con una tristezza che già gli solletica la gola, ride da malato, da matto, ride per non piangere, e forse la sua risata è molto più atroce proprio per questo, perchè non resta da fare altro di fronte ad un mondo di finti eroi e veri coglioni. Cèline li guarda in mutande, li denuda, e se la ride un mondo. E tu con lui.
Ecco la grandezza del “Viaggio”.

Ridere di quello che siamo, che siamo sempre stati, che saremo. La Storia si ripete, dicevamo. Non esiste altro libro che parli di questo cazzo di Novecento meglio del “Viaggio”. Il Secolo della Bomba, dell’Onore e della Sifilide. E di Storia ce n’è parecchia in Cèline, ma neanche quella è molto importante. Neanche la trama lo è, anche se Cèline ne ha davvero per tutti.
L’importante è perdersi in quella notte lì con Bardamu e Robinson, due facce della stessa umanità già 60 anni prima del “Fight Club” di Palahniuk. Perdersi in una notte che davvero sembra non finire mai, e che noi ora sappiamo per certo che non è mai finita.

Cèline metterà delle bombe dappertutto, ma non gliene frega niente di rivoluzioni. Lo sa che è sempre la stessa cazzata. Più gli danno addosso, e più lui scuote la testa e va avanti. Giustizia, progresso, famiglia, carità cristiana, amore…

Ecco che Cèline ride un po’ più forte.

Lui parlerà, più anarchico degli anarchici, più triste di un clown depresso, più vivo di tutti quelli che lo danno per morto. Parlerà tanto, anche.
Stallo ad ascoltare.

Non te ne pentirai.

 

 

(pubblicato su Hotel Morgana l’1/10/2009)

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