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O loro o noi (racconto)

 

Che poi, a dirla tutta, io qui nemmeno ci volevo venire.

È stato solo per necessità.
Sì vabbè, l’idea romantica del Paese dall’altra parte del mondo, il sole, i canguri, le stagioni al rovescio e tutte quelle cose lì. Ma se fosse dipeso da me, qui non ci avrei mai messo piede.
Quando le cose hanno smesso di dipendere da me?

Mi trovavo bene dov’ero. Lì sulla Tiburtina, chi mi veniva a prendere? Stavo come un re. Mi ero riuscito a laureare in tempo, pure se di soldi non ce n’erano mai e dovevo dare una mano in negozio a mia madre e arrangiarmi nel fine settimana. Ma lo facevo, di questi tempi che vuoi fare?
Dopo la laurea mi ero messo a cercare. Solo che, chi dovevo conoscere io? Mia madre poi, figuriamoci. E così, dagli a girare e mandare curriculum, che tanto non se li fila nessuno. Nemmeno te lo dicono più che c’è crisi. Più fiato risparmiano, meglio stanno. Tanto lo stronzo che deve girare a vuoto sei tu.
“Al completo” dicono, manco fosse un hotel. O un bordello.
E ‘nsomma, com’è come non è, partecipo a ‘sto concorso. Centocinquanta posti da insegnante in tutta Italia –che mi dispiaceva pure per mia madre, ma che ci vuoi fare? Ci siamo presentati in 3.000. L’abbiamo fatta in 4 aule magne diverse, io ero in quella di Ingegneria. Centocinquanta su tremila, figuriamoci, e quando mai t’ha detto culo a te?
E invece quella volta m’ha detto culo.
Che poi forse qualcuno di voi se li ricorda, quei 150. Se siete di quelli che si legge il giornale fino alle ultime notizie, magari ci avete visto. Siamo i 150 che aspettano da sei anni quella cattedra –sì sì, proprio quelli. C’è stato un casino che levàti. Abbiamo chiamato giornali, tv, perfino il Gabibbo (che però non è venuto, quell’infame). Tutti a gridare allo scandalo. Un posto, lo posso capire. Dieci, vabbè. Ma centocinquanta? Che spariscono così, dall’oggi al domani? Ciao eh.
Ci siamo lanciati in una caciara di avvocati e udienze e cassazioni che dopo un po’ ho perso pure il filo. Tanto, ero impegnato col negozio di ma’, che senza quello nemmeno mangiavamo.
Solo che il negozio andava sempre peggio. Guai a voi a dire che è la crisi, che veramente sbrocco. Io lo so di chi è la colpa. Quei cinesi del cazzo. Ecco, l’ho detto. Non vi piace? Accomodatevi. Sono stati loro. Hanno aperto ovunque qua a Roma, pure nel quartiere nostro. Vendono la roba a due spicci, che sono poi quelli che ha la gente in tasca. Che vuoi fare?
Mi hanno guastato il sangue, ‘sti cinesi. Per dimenticarli me ne andavo ogni tanto al baretto vicino Portonaccio. Di sei che eravamo, uno solo c’aveva un lavoro fisso, e solo per i calci in culo. Gli altri, ci arrangiavamo o stazionavamo sul divano di casa. Oh, tutti laureati, eh? Pino era pure medico. Ma che s’è mai sentito un medico che resta a spasso? La crisi, ah sì. Mortacci vostri.
Uno di noi, Gigi, era appena tornato dall‘Australia, pensa te. Disoccupato per disoccupato, diceva, almeno mi sono fatto un giro. Tanto la crisi non scappa, vè? La ritrovo tale e quale. Gigi, io ti voglio bene, ho detto, ma dici ancora quella parole e le prendi?
Ma che, Fla’, è finita la crisi e non mi hanno avvertito lì a Sydney?
Lascia perdere, Gigi. Comunque sono contento che sei tornato. Io però di qua non mi muovo. Sai come sono fatto.
Oh, e ci credevo pure quando l’ho detto. Ma poi il negozio andava male, la cattedra non si vedeva, e Gigi non faceva che dire che lì il lavoro te lo tiravano indietro. Che dovevo fare?

Subito la prima fregatura. Avevo superato i 30 anni (che sembra sia una colpa in tutte le parti del mondo, non solo in Italia), e quindi non potevo fare il visto che aveva fatto Gigi. Non sapevo dove sbattere la testa e non parlavo una parola di inglese. Cercavo informazioni sul sito del Dipartimento australiano, ma non ci capivo una mazza. Su internet avevo trovato un’agenzia privata italiana che mi prometteva visto e lavoro per la modica cifra di ottomila. Io qualcosina da parte ce l’avevo. Mia madre mi disse, tanto qui ce li mangeremmo senza arrivare a niente, magari lì trovi qualcosa.
Pagai. Mi mandarono un contratto, me lo fecero firmare, e qualche giorno dopo mi mandarono un modulo di iscrizione e tutte le indicazioni. Lo mostrai a Gigi. Lui lo lesse, mi guardò e scosse la testa.
Ti hanno fregato, Flaviè.
Che vuoi dire?
Mi disse che l’agenzia mi aveva fatto un visto da studente con una scuola. Solo che era una cosa che avrei potuto fare anche io, senza spendere quegli otto testoni. Inoltre non avevo il lavoro assicurato, ma solo un elenco di posti dove avrei potuto fare domanda –e sembravano tutti ristoranti o bar.
Feci vedere allora il documento a Tommy, che era un avvocato a spasso, e lui mi disse che non c’erano gli estremi per denunciarli. Avevo accettato io quel servizio, pure se strapagato.
Ecco la prima. Cominciavamo male, ‘tacci loro.
Comprai un biglietto per Sydney, salutai mamma all’aereoporto, e mi portai dietro le sue lacrime per tutte le 24 ore di volo.
Una volta arrivato andai a stare in ostello. Una camerata che sapeva di calzini sudati e scorregge, insieme a 2 ragazzi tedeschi e 4 asiatici. Ancora ‘sti cazzo di cinesi.
La scuola che frequentavo non era male. Non dovevo fare praticamente niente, era solo una truffa per permettere a quelli come me di restare qui in maniera legale.
Girai per cercare lavoro. Non fu facile come diceva Gigi –e vabbè che il suo visto era diverso. Trovai una caffetteria/pasticceria italiana, “Zucchero”, che mi assunse quasi subito. Fu tutto così rapido che mi chiesi come mai, visto che non avevo esperienza. Poi capii: nessuno resisteva in quel posto. Il proprietario, Carmine, era un calabrese venuto lì negli anni Sessanta. Aveva spalato la sua quantità di merda finchè non aveva incontrato e sposato l’australiana giusta. Con i soldi di lei, aveva aperto questo locale, che era anche l’unico che era rimasto in piedi ininterrottamente per tutti quegli anni. Tutti gli altri bar della zona avevano dovuto chiudere, prima o poi. “Zucchero” no. Non certo per i dolci, che sapevano di marcio, o il caffè che era sempre bruciato –che tanto agli australiani sembrava sempre tutto buonissimo. Il segreto di “Zucchero” era che teneva i prezzi incredibilmente bassi, e così aveva la gente che faceva sempre la fila per quei cannoli dal sapore di cartone.
Sfido che Carmine teneva i prezzi bassi: tutti i suoi lavoratori erano in nero –come me- e pagati una miseria. Al primo sussurro li mandava subito via. Di ragazzi italiani disperati ne arrivavano a decine ogni giorno. Non ti piace?, diceva. Bene, prendi un foglio a caso di quella pila –e indicava una massa di fogli.
Cos’è, diceva il ragazzo confuso.
I curriculum che mi hanno lasciato solo questa settimana. Quello che hai in mano è il nome di quello che ti sostituirà. Ora dammelo e togliti dai coglioni, stronzetto.

Alla scuola scoprii che anche tutti gli altri lavoravano in nero. Con la scuola e l’affitto della stanza –che nel frattempo avevo trovato in un quartiere un po’ decentrato- come potevi mai lavorare solo 20 ore a settimana come permesso dal nostro visto?
Ci prendono per il culo, diceva Raffaele, un ragazzo italiano che frequentava la mia classe. Fanno mille regole per impedirti di infrangere le loro leggi, e poi ti spingono a farlo. Chi cazzo mai può campare qui lavorando solo venti ore a settimana?
Raffaele faceva due lavori, per un totale di quasi sessanta ore settimanali.
Dove lavoro il finesettimana, diceva, è un bel locale, affollato. Di solito il proprietario preferisce assumere australiani, sai com’è, molti italiani vengono qua senza sapere un cazzo di inglese, è difficile fargli capire qualunque cosa. Però di buono abbiamo che lavoriamo sodo, prendiamo poco e non rompiamo il cazzo. Gli altri ragazzi aussie non sono molto contenti che gli freghiamo i turni ma, oh, è il capitalismo baby. E poi io sono biologo, già mi scazza a stare a fare cocktail tutta la sera.
La svolta sarebbe restare, dicevo io.
La svolta è diventare permanente, diceva Raffaele. Dopo, tutta discesa. Prima cosa che fai, ti vai a beccare subito il sussidio. Sai in quanti sono che ci campano qui? E mica come in Italia, che poi chiudono i rubinetti –e già prima è una miseria. Poi ci sono anche altri modi.
Tipo?
Tipo conosco uno di Bologna che ha finto un incidente sul lavoro –in realtà era caduto con la moto. Workers compensation, così si chiama. Rimborsi, orari e mansioni più leggere, ferie quando ti pare. Hai svoltato veramente.
Insomma, manca solo il furto con scasso, ridacchiavo io.
Ma che cazzo dici? Ci riprendiamo solo quello che in Italia non ci hanno dato. Basta farsi furbi. Se poi questi aussie hanno i soldi che gli escono dal culo, oh, sarà mica colpa nostra?
E cosi si tirava avanti, tra la finta scuola, la stanzetta infestata di scarafaggi vicino al metrò, le piogge e il lavoro, con Carmine che insultava tutti e minacciava licenziamenti. Quando doveva pagarti, c’era sempre qualcosa in meno. Se glielo facevi notare diceva, vabbè, chiama l’Ufficio del Lavoro dai, e fai un fischio anche a quelli dell’Immigrazione.
La tentazione di mandarlo affanculo era enorme, specie quando arrivavi dopo una giornata del cazzo a casa e ti rendevi conto che i soldi che avevi erano giusti giusti quelli per tirare avanti e niente di più. E dire che volevo mandare qualcosa a mia madre.
Che lei non mi aveva detto niente, che il negozio aveva chiuso. Era stato Tommy a dirmelo, che era passato da quelle parti e voleva salutare. Avevo chiamato ma’, e mi era sembrata strana al telefono. Sai com’è, tesoro, andava male e da sola non ci riuscivo a mandare avanti. Ma è temporanea, eh, solo per adesso. Vediamo come ti va lì e poi decidiamo.
La settimana dopo l’avevano ricoverata e dimessa nel giorno di un paio di giorni. Io ero già sulla strada per l’aereoporto ma lei mi aveva detto che no, non era niente, solo un po’ di stanchezza arretrata. Glielo dicevo da tempo di andare in pensione. E che ci faccio con quell’elemosina?, aveva detto lei.
Le sere libere dal lavoro le passavo in stanza. Non avevo soldi per uscire. Mi giravano discretamente per come le cose stavano andando. Cinesi del cazzo. Se il negozio fosse andato bene, tutto si sarebbe risolto. E la cattedra? Avevano detto che era un nostro diritto. L’avvocato ci diceva di essere fiduciosi.
Odiavo i miei coinquilini. C’era un francese che lavorava la notte e dormiva tutto il giorno, e poi una coppia indonesiana. Ogni volta che li vedevo, mi giravo dall’altra parte. Non ne potevo più. E il peggio è che Sydney era messa pure peggio di Roma. Ovunque ti girassi, solo cinesi. Si erano impadroniti anche di questa città. ‘stardi.
Me ne stavo a cazzeggiare al computer, nella mia stanza. Leggevo giornali online per sapere qualcosa della nostra causa, ma ormai era caduta nel dimenticatoio. Avevamo ragione, ma era qualcosa che, al giorno d’oggi, è sempre meno importante. C’erano solo notizie di scandali politici accanto a video buffi di animali e star che baciavano altre star o divorziavano o si sposavano nuovamente. Pensavo a mia madre. C’era qualche politico che cominciava ad alzare la voce contro rom, zingari e immigrati. Era ora, cazzo. Vediamo se qualcuno risolve il problema una volta per tutti. Ricordavo quando il negozio aveva aperto, molti anni prima. Le cose andavano bene. Si stava decentemente. Poi erano arrivati gialli, neri, rossi, e le cose erano sfuggite di mano. Era tempo che qualcuno facesse qualcosa. Il prossimo voto mio sarebbe stato per loro, ah sì.
Quel giorno Carmine era più su di giri del solito. Lanciava attrezzi per aria. Uno di questi quasi mi prese.
Rifallo, dissi.
Lo rifece. Un attimo dopo l’avevo messo giù. Non aspettai nemmeno che dicesse altro. Gliene piazzai un altro mentre era a terra e me ne andai, che una carogna così era capace di chiamare la pula in niente. Naturalmente non mi avrebbe pagato per quella settimana, lo stronzo.
Arrivai a casa, tutto bagnato per il solito temporale del cazzo di questa città del cazzo. Provai a chiamare mia madre ma non rispose, così andai sul sito del Corriere. Il giornale diceva che più di 700 migranti erano morti nel Canale di Sicilia, affogati, mentre cercavano di raggiungere le coste italiane. Lessi i commenti su Facebook, tutta gente che si commuoveva, che metteva foto e scriveva pensierini poetici. Mi facevano vomitare. Scrissi: meglio. 700 in meno. Adesso tocca agli altri. O loro o noi, cazzo.
Alcuni mi insultarono, molti mi sostennero. Cominciammo uno scambio di insulti. Chi cazzo aveva pensato ai centocinquanta rimasti senza lavoro, eh? Nessuno. E adesso tutti a piangere. Morti? E cosa eravamo noi? Invisibili, nascosti, spinti alla sopravvivenza. Cosa avrebbero fatto questi settecento, una volta arrivati in Italia? Avrebbero rubato o, nella migliore ipotesi, ci avrebbero soffiato i lavori, fregandosene di regole e concorrenza. Mica erano come noi, che ovunque andavamo ci facevamo il culo in silenzio, seguivamo le regole ed eravamo benvoluti da tutti.
La discussione online diventò intensa. Mi facevano ridere, quelle animelle belle. Se li prendessero a casa loro. Mors tua vita mea, non è così? E mia madre ancora non rispondeva. Fanculo. Fanculo Carmine, fanculo “Zucchero”. Fanculo Sydney e Gigi. Fanculo il negozio, fanculo i cinesi. Cinesi dimmerda. Alzai il volume del computer, musica a palla, dovevo trovare un muro sonoro dove la mia rabbia potesse rimbalzare. Fanculo.
Non sentii nemmeno battere alla porta all’inizio. Quando andai ad aprire, mi trovai davanti il ragazzo indonesiano.
‘zzo vuoi?, chiesi.
Non parlava inglese, e io lo parlavo solo poco meglio. Capii che voleva che abbassassi il volume. Un sorriso rabbioso mi crebbe sulle labbra. Sparisci, involtino.
Chiusi la porta e misi la musica ancora più alta. Scrivevo con furia mentre la musica mi faceva schizzare l’adrenalina alle estremità del corpo. L’involtino battè ancora alla porta. Ti consiglio di andare, baby, oggi non è giornata. Mia madre non rispondeva. Ancora più alto. Adesso chiudiamo ‘ste cazzo di frontiere. Bussarono ancora. Fanculo. Mortacci vostra. Cominciai a girare la stanza. Non ballavo, zompavo e basta. Sentivo qualcosa stringermi le budella, strizzarmele e quasi accecarmi. Cantavo insieme alla musica, come se avessi la bava alla bocca. Qualcuno ci avevo ridotti così, tutti quanti. Tutti a scannarci e … no, erano stati i cinesi. Bussarono più forte.
Centocinquanta cause.
Settecento morti.
O loro o noi.
O loro o me.
Mia madre non risponde. Tommy non lavora. Non posso nemmeno drogarmi come si deve, ahah. Bussarono insistentemente. Fancul…

Per questo sei arrivato qui?
Non so come sono arrivato qui. Hanno chiamato un interprete perchè, come detto, il mio inglese è ancora a “the cat is on the table”. Che per caso sono in arresto?
Sei stato male. Ti hanno visitato, dopo che la polizia è arrivata perchè avevi aggredito i tuoi coinquilini indonesiani.
Aggredito?
Il ragazzo dice che lo hai inseguito per la casa, poi gli hai preso la testa e gliel’hai messa dentro il cesso. Dicevi che dovevano annegare anche loro.La ragazza ha chiamato la polizia.
Non ricordo niente.
Come ti senti?
Bene. Stanco. Bene.
Senti… abbiamo chiamato casa tua. Devo dirti qualcosa.

L’uomo uscì dalla stanza, fece un mezzo sospiro, più per la giornata che per quello che era successo. Un poliziotto di colore gli si accostò.
«Si è capito perchè si è messo ad urlare in quel modo quando mi ha visto?»
«Forse una mezza idea ce l’ho» disse l’uomo, in inglese.
«Gli ha detto di sua madre?»
«Sì»
«Come ha reagito?» chiese il poliziotto.
«Ha solo guardato in basso, sul tavolo»
«Nient’altro?»
«Ripeteva solo che sono stati loro»
«Loro chi?»
«Non lo so» disse l’interprete. «Ha detto solo il numero 700. Adesso è di là che scuote la testa e ripete solo:
Loro… o noi o loro … sono stati loro…”

 

 

Marco Zangari © 2015
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