Non siamo eroi, noi che partiamo, ma nemmeno (tutti) st*onzi.

 

Premessa necessaria: a settembre saranno dieci anni dal mio arrivo in Australia. Nessuno mi ci ha costretto nè tantomeno mandato. Sarei potuto tornare indietro in qualunque momento –come in effetti ho realmente fatto, ad un certo punto. Ho passato la fase della luna di miele con Oz, quella della nostalgia struggente del Belpaese, quella della repulsione italica e quello dell’insofferenza australiana. Alla fine ho raggiunto un mio equilibrio.
Come dice Paul Valery: “Mi sono amato, mi sono odiato, e poi siamo invecchiati insieme”.
Non passo il tempo sui gruppi Facebook di italiani downunder a dimostrare se sia meglio l’Italia o l’Australia, sia perchè non lo so, sia perchè non me ne frega niente. Con gli anni ho capito che sei tu, non è il luogo. Poi certo, magari per l’Alaska ti devi attrezzare, ma si può fare anche quello.
Con questa premessa, mi sono trovato –dopo anni- a passare il Natale a casa. Con il Natale, così come con tante altre cose, ho avuto per anni un rapporto conflittuale. Ma era passato del tempo, ed ero felice di stare con la mia famiglia. Quella ristretta, intendo.
Perchè in ogni famiglia allargata, ogni Natale, c’è sempre uno zio o una zia che sente il bisogno, no, l’URGENZA di farti partecipe del suo punto di vista sul mondo –che si tratti di politica, di religione o più semplicemente della tua schifosa vita.
Non starò a ripetermi perchè ci siete passati tutti. Quei momenti in cui, seduti a tavola alla ventisettesima portata, già ti illudi di averla scampata, e invece.
E invece gli Zii partono all’attacco. Sembrano conoscere i tuoi punti deboli pure se non glieli hai mai detti. Se sei single, ti chiedono subito dove hai lasciato la fidanzatina. Se sei all’università, ti chiedono quando ti prenderai questa benedetta laurea. Quando ti sei laureato, ti chiedono quando lavorerai. Quando cominci a lavorare al call center, ti chiedono quando ti troverai un lavoro vero –e via discorrendo.
E magari ancora vi chiedete perchè avevo un rapporto conflittuale col Natale.

Ci siamo passati tutti, tra un pandoro e “Una poltrona per due” alla tele.
Memore di tutto questo, sono andato alla solita cena mentalmente preparato.
La Zia mi aspetta. Ella di solito siede all’altro capo della tavolata e ti osserva. Tu sei Quello Dell’Australia, e ci sta. Se avete fatto avanti e indietro abbastanza volte, sapete già di che sguardo parlo. Va da quello più ingenuo –com’è che non sei diventato un surfista biondo dopo tutti questi anni?– a quello più sospettoso –e certo, vieni qua a fare lo zio d’Australia, ma chi ti credi di essere?
E lo capisco pure. Tra quelli tornati indietro ci sono sempre quelli che devono far vedere, disperatamente, che Loro sono stati dall’altra parte del mondo, Loro hanno girato, Loro hanno visto. Se le cose erano andate bene in Australia (e talvolta anche quando non lo erano andate, tanto chi sarebbe mai andato a controllare?) dicevano che Loro avevano fatto i Soldi. E voi, poveri stronzi che siete rimasti qui? Che mi raccontate di bello?
Ne ho visti così. Alcuni si preparavano la Loro versione dei fatti mentre erano ancora in Australia, per essere pronti a tornare come Salvatori della Patria. Quasi meglio dei marò.
Ce ne sono, e di sicuro sono uno di quei drammi statistici che rovinano un po’ la reputazione a chi così non è, e ha semplicemente voglia di condividere un momento che, nel bene e nel male, spesso lascia il segno. Per fortuna Loro sono la minoranza. Se non avessero diritto di voto come te, nemmeno ci faresti caso.

La prima domanda della Zia è sempre la stessa.
Com’è l’Australia?
Avessi avuto un soldino per ogni volta che l’ho sentita, a quest’ora viaggerei in business avanti e indietro. Per carità, va anche bene, io stesso lo chiederei. Solo che La Zia te lo chiede Ogni Fottuta Volta che ti vede. E non è che l’Australia è cambiata nel frattempo, eh. Ho pure scritto un libro, “Latinoaustraliana”, per non dover rispondere ogni volta daccapo. Tiè, leggi e lasciami bere questo whisky in pace.
Ma La Zia non molla, e tu allora ti tieni sul vago –mah, lo stesso, ora è estate lì (informazione che sembra non venire registrata mai, visto che viene sempre accolta con enorme sorpresa). Dopodichè torni a sorseggiare il tuo bicchiere sperando sia finita lì. In queste situazioni mi piace diventare tappezzeria, trattenere il fiato e aspettare che la serata passi. Non perchè non mi piace parlare (e scrivere) dell’Australia; semplicemente, ormai so quando la persona davanti è realmente interessata, e quando invece ti sta stuzzicando.
Con La Zia, non ci vuole molto a capire le sue intenzioni. Subito dopo arriva infatti il classico:
Ma quanto si guadagna in Australia?
Domanda anch’essa innocente, non fosse per il fatto che ti aspettano al varco. Non esiste una risposta giusta, e lo sai.
Se dici che si guadagna tanto, allora te la stai tirando –e sei uno stronzo, specie a dirlo in un Paese con disoccupazione al 40% e Kasta eccetera eccetera,
Se dici che si guadagna poco, allora ti guardano come se fossi scemo pensando, e allora perchè cazzo sei andato fin lì?
Anche in questo caso, fai cadere una rapida risposta diplomatica, sperando che dopo ti lascino in pace: si guadagna più di qui, ma è tutto molto più costoso.
Là, punto. Ora, davvero, tornate a parlare di traffico calcio e meteo, e lasciatemi in pace.
La Zia fa passare il tempo di una portata, poi torna all’attacco.
Eh, certo che lì è diverso da qui!
Un’osservazione del tutto innocua, trita e ritrita. La realtà, però, è che questo è il segnale di via per schiaffare in un discorso tutti i luoghi comuni su un Paese e sull’altro, dove vince chi la spara più grossa prima che la pasta sia pronta. Quello che mi lascia più basito, ovviamente, sono i commenti sull’Australia da gente che non ci ha mai messo piede, che raramente ne legge le notizie (che sui media italiani sono quasi sempre sul modello: coccodrillo sbuca dal cesso di una casa di Darwin e azzanna genitali di simpatico bifolco), ma mi forzo a tacere. Ho smesso da anni di partecipare a questa stupida gara. Per dirla con Arthur Koestler: “Viaggiando, si impara che tutti i popoli hanno torto.”
Come esercizio zen, comincio a fare delle palline con le molliche di pane. Le modello con le mie mani, aggiungo man mano altra mollica. La conversazione prosegue, le palline si fanno più grosse.
E tu che ne pensi?
La voce della Zia mi coglie completamente impreparato, concentrato com’ero sulle palline. Ho un deja-vù di quando chiamavano all’improvviso il mio nome in classe, e io non sapevo nemmeno a che ora fossimo arrivati.
Il fatto che La Zia sia una professoressa in pensione, non fa che peggiorare la sensazione.
Vorrei dirle che non stavo ascoltando, ma Ella è lì in attesa. Devo dire qualcosa, qualunque cosa.
Forza. Dai.
Beh, sì, certo è impossibile paragonarli, e poi, sai, l’Australia è cambiata anche rispetto a quando sono arrivato io, figurati –e intanto fisso un punto nel vuoto, alle spalle di tutti, sperando che arrivi la campanella a salvarmi. Il miracolo di Natale si compie, la pasta arriva, Eddie Murphy diventa amico con Dan Akroyd e io posso ritornare alle mie palline di pane.
E’ solo più tardi, diciamo tra la quarte e quinta portata, che la Zia ricomincia –così, con nonchalance.
Certo che voi che siete andati via, che coraggio incredibile!
E questa ti frega. Perchè, anche se sai che l’ha detto la Zia, non puoi negarlo: c’è voluto del coraggio, è vero. Anche solo per affrontare 22 ore di volo col pollo al curry come unico vero nutrimento. Anche solo per decidere di farlo, di mettere da parte tempo e soldi. Di darti un’altra opportunità in un mondo che sembra lasciarti battere solo un rigore, e poi sarai per sempre, nonostante tutto, quello che l’ha tirata troppo alta.
Anche solo per aver dovuto salutare e incamminarti verso il gate, senza guardarti mai indietro per paura di lasciare pezzi di cuore sparsi per il terminal.
Poi mi ricordo due cose.
La prima, che quella frase era pronunciata dalla Zia, quindi non era un apprezzamento sincero, ma solo un’altra trappola.
La seconda, che non ho mai creduto che chi partisse fosse un eroe, così come non l’ho mai pensato di chi restava. Sono parole prive di senso, colorate dall’umore e da un futuro capriccioso. Non è furbo chi parte, non è martire chi resta. Ognuno ha le sue ragioni, le sue ispirazioni, le sue limitazioni. Ogni storia, vivaddio, è diversa. A volte chi è partito avrebbe fatto meglio a restare, altre chi è rimasto magari avrebbe dovuto farsi un giro fuori. Non c’è una Regola Universale, nonostante le Zie di tutto il mondo la vadano cercando da sempre, inutilmente.
La Zia sente che l’ultimo attacco non ha funzionato, e allora parte per l’ultimo, il più disperato, il più infame. Quello che coinvolge le tua famiglia, i tuoi cari, la gente che se sei fortunato vedi una volta all’anno –ogni volta un po’ più corti, con più rughe, con più storie da raccontare e meno memoria per farlo.
Ma tu che sei andato così lontano, non pensi a chi lasci qui?
Ah beh. Mi cadono le palline di pane per terra. Fanculo. Sono stato seduto qui a sorbirmi tutto –i conti in tasca, le valutazioni, perfino le indicazioni- ma questo no. Non siamo eroi, noi che partiamo, ma nemmeno (tutti) stronzi. Non siamo tutti uguali, d’accordo. Alcuni trovano fortuna, altri continuano a fare il primo lavoro che hanno trovato. Alcuni hanno lasciato dietro gli affetti, altri botte e incomprensioni. Ma tutti, indistintamente, ci siamo lasciati dietro una storia, bella o brutta che fosse. E quella storia si arricchisce ogni volta che torniamo a casa e usciamo dall’aeroporto e soffochiamo in un abbraccio. E quella stessa storia ti viene riflessa nel finestrino dell’aereo –di troppi aerei- al ritorno, quando ci sono ricordi, pensieri in bianco e nero, frasi non dette, promesse che non potrai mantenere. Chi parte può aver ragione o torto, ma ha anche il sacrosanto diritto che nessuno gli venga a dire come ci si sente, quando l’aereo chiude il portellone, quando tutto quello che conosciamo si fa piccolo e poi remoto, freddo o caldo, preciso e poi sfocato.
Chi parte, sa come ci si trascina, assonnati e distratti, per quegli aeroporti a Dubai, Hong Kong o Singapore, sempre troppo uguali e con le luci troppo forti per occhi che si devono ancora riabituare.
Chi parte sa che non ci sono solo il lavoro, lo stipendio, l’affitto, l’articolo sul giornale sulla qualità della vita –c’è anche l’amore, ostinato e contrario, per niente scontato, che sopravvive alle notti nel deserto degli stop-over e ti porti dietro anche nelle stagioni al contrario della tua vita australiana.
A quel punto faccio l’unica cosa da fare: con un sorriso mi alzo, ringrazio, saluto, stringo la mano dalla Zia e me ne vado. Perchè l’eroe non è chi parte o chi resta, ma chi riesce a resistere a queste cazzo di cene.
E io non sono nato per fare l’eroe.

Marco Zangari © 2017
www.marcozangari.it
Pagina Facebook: Marco Zangari 

Per altre informazioni sul romanzo sull’Australia, “Latinoaustraliana“, clicca qui.

 

8 Comments
  • sergio
    Posted at 13:34h, 24 gennaio Rispondi

    in tutta sincerita’ che i parenti o amici facciano quelle domande è normale, credo invece che le razioni di fastidio non siano segni di un equilibrio fimalmente trovato tra la patria persa e quella nuova ma al massimo di rassegnazione , il vero equilibrio è altro.

    • marcozangari
      Posted at 02:37h, 25 gennaio Rispondi

      Credo che tutti, ovunque, prima o poi si rassegnino a quello che sono e al proprio destino -ma se se lo sono scelto, allora rassegnarsi ha una valenza solo positiva. Questo ho detto nella premessa: la mia e’ stata una scelta consapevole, voluta e portata avanti, sia nei giorni di sole che in quelli di pioggia, costruendo e disfacendo, ma sempre a modo mio. A dispetto di tutte le Zie del mondo, che in fondo non fanno niente di male se uno sa come prenderle. Un saluto, Marco

  • virginiamanda
    Posted at 14:01h, 24 gennaio Rispondi

    Già. Io credo che sia difficile dare risposte serie e ponderate, quando si tirano in ballo i sentimenti.
    Poi, credo che La Zia in realtà sia solo, semplicemente, curiosa. Vuole saperne di più, perché così può raccontarlo in giro, perché “sai mio nipote, quello che sta in Australia, mi ha detto…”, in fondo a me fa tenerezza.
    Con il tempo ho imparato a spiazzare dicendo la verità, (anche la verità sui sentimenti) niente più risposte diplomatiche.
    Nel mio piccolo, credo che alla fine conti la propria bilancia: nel mio caso credo che lo stipendio e il lavoro siano importanti, ma non valga la pena abitare a ventiquattro ore di distanza dai miei cari per averli. Magari un giorno la penserò diversamente, ma non sono mai riuscita a stare più di cinque mesi senza tornare dai miei e ci tengo a farlo.
    Ma ci sono tanti fattori e tante famiglie diverse (e tante bilance diverse).
    Un abbraccio!

    • marcozangari
      Posted at 02:43h, 25 gennaio Rispondi

      D’accordissimo con te, Virginia -e in fondo sulla Zia ci ho giocato un po’, e so bene che si tratta (spesso) di curiosita’. Poi col tempo diventi piu’ sincero con chi e’ disposto ad ascoltarti, e impari ad accettare chi invece ha gia’ pronta la sua versione -ma concedendo sempre, a tutti, il beneficio iniziale della buona fede. Sulla distanza, ti capisco e so che dipende dal percorso di ognuno, dalla storia alle spalle e dalla scommessa che si fa per il futuro. Non esiste una regola che vada bene per tutti, ed e’ giusto cosi’. Basta imparare a vivere bene nella propria pelle, forse. Un abbraccio, Marco

  • sara charlotte andreini
    Posted at 22:50h, 24 gennaio Rispondi

    Non posso essere sicura se per “Zia” tu intendessi realmente una zia, o forse stessi facendo una metafora per definire coloro che restano. Le persone che ci vedono tornare, riposare, ricaricarci della polvere di ció che si é stati per tanto tempo ma che peró che non si é piú. Per poi ripartire, ed essere riassorbiti in mondo che si fa nostro con ogni passo, con ogni scelta difficile, a volte semplicemente necessaria. Ho anch’io tante zie, giovani e vecchie, che mi scuotono di tanto in tanto il cuore. Grazie per il tuo testo, mi ha fatto proprio piacere leggerti.

    • marcozangari
      Posted at 02:51h, 25 gennaio Rispondi

      Grazie a te Sara, hai espresso molto bene la sensazione che si prova a tornare. Per quanto riguarda la Zia, penso siano vere entrambe le cose: la Zia esiste davvero (anche se “esagerata” ai fini del racconto) ed e’ anche un simbolo per una parte (per fortuna minima) di chi resta. Per fortuna il resto della mia famiglia e’ sempre stato incredibilmente di supporto in tutto quello che ho fatto, dandomi sempre un porto nel quale tornare ogni volta. Il che, come sai bene, e’ preziosissimo. Un abbraccio e alla prossima, Marco

  • Claudia
    Posted at 06:07h, 28 gennaio Rispondi

    Se avessi un centesimo per tutte le volte che, negli anni, mi sono state fatte queste domande, altro che viaggi in business! Prima classe direttamente! Putroppo questo è un circolo vizioso, se vai via sei una merda, se resti sei uno sfigato. Fa parte della natura umana giudicare e lo si fa, spesso e volentieri, senza avere le giuste informazioni. Ma tant’è!
    ps. Ho appena finito “Latinoaustraliana”… quante risate che mi hai fatto fare!

    • marcozangari
      Posted at 04:30h, 30 gennaio Rispondi

      Seguo il tuo blog da un po’, Claudia, quindi so che l’argomento del post lo conosci bene e lo hai provato sulla tua pelle. Alla fine capisci che e’ meglio parlare con chi ha davvero voglia di ascoltare, e risparmiare il fiato con chi ha gia’ invece la sua idea pronta a prescindere. Ps. grazie per “Latinoaustraliana”, e’ uno dei complimenti migliori che potessi farmi!

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