Natale dentro

(L’O.P.G. -Ospedale Psichiatrico Giudiziario- aveva preso il posto degli antichi Manicomi Criminali. NdA)

 

Avevamo tutti una famiglia, bella o brutta. Avevamo degli amici. Qualcuno di noi aveva anche un amore.
Una volta superato quel cancello non avevamo più niente, esattamente come tutti gli altri.

Natale era il periodo che ricordo meglio. C’era spesso il sole. A volte sembrava quasi primavera, ma poi l’inverno tornava bruscamente a riempire di gelo le stanze piene di polvere e i vialetti del cortile.
Partivo da casa e facevo apposta una lunga deviazione per poter vedere il mare guidando. Quella deviazione mi permetteva di tornare in quel posto, giorno dopo giorno.

Le montagne erano piene di neve ed io avevo comprato delle stelle di Natale per l’ufficio. Era stata M., la mia capa, a dirmi di comprarle. Avevo parcheggiato nel grande ipermercato non lontano dal manicomio criminale ed ero sceso, mi ero infilato tra la folla che faceva il pieno prima della Vigilia e avevo comprato le stelle di Natale. Al mio arrivo M. le aveva sistemate nella scrivania dell’ufficio dove ricevevamo le famiglie dei ricoverati. Qualche tirocinante appena arrivato li chiamava “carcerati” o “pazienti”. M. chiariva subito che non erano nessuno dei due, e lo faceva a modo suo. Un modo che i tirocinanti non dimenticavano facilmente.
Le stelle di Natale sembravano ancora più rosse, in quell’ufficio dai mobili scuri e vecchi, i tendaggi pesanti, l’odore di muffa e le sbarre alle finestre. M. voleva un tocco di Natale anche in quel posto, qualcosa che ricordasse che il tempo scorreva anche lì dove sembrava bloccato. Le famiglie entravano, parlavano, piangevano. Non le noteranno mai, pensavo.
Poi una di loro, una vecchietta col figlio ritardato rinchiuso lì da 9 mesi senza che nemmeno l’avvocato ci capisse niente, alzò la testa, fisso le stelle e disse “Sono bellissime”. Sorrise, anche.
Fu l’unico sorriso della mattina.

Non so perchè, ma ho sempre amato le decorazioni dei paesini. Le luci dei viali principali non m’interessavano. Volevo le vie di periferia dimenticate da tutti, volevo il paesino che si svuota dopo l’estate. Mi piacevano quelle lucette che brillavano nel vuoto gelido. Non c’era nessuno a guardarle tranne me. Mi davano un senso di patetico, di drammatico, di intimo.
In alcuni dei reparti del manicomio erano stati addobbati degli alberi. Vicino al primo, uno di quello che puzzava più di piscio, avevano anche montato un presepe con pastorelli Magi e tutto. C’erano le lucette colorate, come piacevano a me. Brillavano nel buio fatto di lamenti, botte, violenze, per poi spegnersi e lasciare il posto all’oscurità.

Là dentro non avevamo niente, solo noi stessi. Ci supportavamo. Era come se il mondo fuori non esistesse, e quello dentro sì.
Quando eravamo fuori, però, pensavamo il contrario.
Ci ritrovavamo nella biblioteca senza riscaldamenti. Battevamo i denti e ridevamo per ogni stupidaggine, e mentre lo facevamo sentivamo quanto era importante. E quando non ridevamo, sapevamo che i nostri problemi si erano mischiati a quelli che non erano nostri e quella sarebbe stata una giornata più lunga del solito.
Non avevamo soldi ma dividevamo tutto. Ci offrivamo caffè su caffè da una macchinetta putrida all’ingresso. Dopo gli incontri di gruppo con i ricoverati siedevamo per ore nella panchina esterna a parlare di tutto, rinviando il momento in cui saremmo dovuti tornare nel mondo di fuori.
Prima delle feste niente auguri, niente baci forzati. Ci salutammo normalmente. Queste erano cose da mondo di fuori.
Lì dentro ci bastava un’occhiata.

Eravamo tanti, e tanti ancora ne sarebbero arrivati. Qualcuno sarebbe anche rimasto. I. ci sapeva fare con i parenti, G. si faceva risucchiare dalle storie, si perdeva negli occhi dei ricoverati. G.M. costeggiava i limiti suoi e degli altri con umanità.
M. guardava tutto questo come un film ripetuto, ma non deviava mai l’attenzione. Era lei che ci riportava nel mondo di fuori un attimo prima che ci perdessimo.
Con N. dovevamo fare il nostro primo giro serale tra i vialetti. Era quando tutti i reparti aprivano e si chiacchierava di calcio sotto gli alberi spennati, fingendo che dentro fosse fuori. Noi eravamo curiosi e anche eccitati perchè il giorno prima avevamo assistito all’uscita di V. –e da quelle parti questo è un evento che non accade spesso. Non capita quasi mai, anzi.
Restammo in manicomio finchè il buio penetrò nella biblioteca insieme al freddo di dicembre, e quando fu l’ora ci avviammo verso l’entrata, ma la guardia non ci fece passare. Emergenza, disse. Uno dei ricoverati aveva avuto un infarto. L., uno dei più anziani. Stava lì da quasi vent’anni per un reato che non era nemmeno un reato. Da quasi vent’anni passava il Natale là dentro. Morire a Natale sembrava molto facile, là dentro.

I ricoverati raccontavano alcune storie sul Natale, ma preferivano farlo a tu per tu e non insieme al gruppo. Erano una piccola debolezza che in posti come quello, con le sbarre e le guardie coi manganelli che fanno male, diventavano un lusso. Noi ascoltavamo le loro storie, storie di passati fagocitati da quel terribile presente, storie di momenti felici, storie magari inventate, perchè tutti avevano bisogno di una casa a Natale, anche quelli che non l’avevano mai avuta.
Natale per molti voleva dire poco. Alcuni se ne sbattevano. Altri erano eccitati per la messa, il pranzo, per la visita dei volontari. Una giornata diversa in mezzo ad altre tutte disgustosamente uguali.
Altri pensavano che erano lì dentro. Che non sarebbero stati a casa. Che a casa non sapevano nemmeno quando (o se) ci avrebbero rimesso piede.
Che la sera del 24 era un’altra sera da far passare.

Mi capitò di lavorare anche il 24. Avevo il mio laboratorio di pittura. La direzione e le guardie, nella loro magnanimità, concedevano ad uno dei ricoverati, un vecchio pittore, di poter dipingere per qualche ora alla settimana. Ci davano una stanza sporca e gelata con la porta socchiusa, e un cacatoio sporco. Pennelli e pittura erano a carico del vecchio.
Io dovevo aiutarlo, ma in realtà il vecchio andava come un treno anche senza di me. Era un artista, di quelli veri. Lo fissavo affascinato mentre ascoltavo le sue ciarle e i suoi lamenti e i mille discorsi da finto scorbutico. Quando le medicine facevano effetto, alternava la calma agli scoppi di collera.Quando facevano TROPPO effetto, era intontito fino all’ebetismo.
Aveva i suoi problemi, come tanti. Mi raccontò della sua famiglia, mi disse dei suoi vagabondaggi sulla Rive Gauche ai tempi d’oro, di quando si pagava da bere coi suoi quadri.
In quel periodo provavo a diventare uno scrittore, e vedere uno come il vecchio rinchiuso lì dentro mi faceva pensare a tante cose. Come avrei reagito io, se mi avessero tolto anche quello?
M. dirigeva il laboratorio di pittura prima di me. Aveva fatto in modo che il vecchio passasse dai toni scuri dei primi quadri a quelli più colorati dei recenti. Ancora una volta, M. sapeva il fatto suo. Quei quadri pieni di cielo, turbanti, fiori e ballerine gli miglioravano l’umore enormenente. Aveva quasi cominciato ad affezionarsi a me e M. Ci aveva promesso due quadri tra i più belli –che poi qualcuno rubò da una stanza nella quale solo gli agenti avevano accesso.
Quel giorno non aveva voglia di dipingere, però. Era di pessimo umore. Si fece offrire un caffè, cominciò a inveire contro le guardie, i ricoverati, il mondo intero. Non riuscivo a tranquillizzarlo. Non era successo niente, non aveva avuto liti. Le medicine erano le stesse. Non capivo.
Andò a pisciare nel cacatoio con la porta aperta. Sentii tutta la pisciata. Faceva freddo. Un piccione sbattè contro le sbarre. Il vecchio si richiuse la patta e si avvicinò alle sbarre. Guardava il presepe di sotto. Non disse niente per un pezzo, poi sputò.
Andò al tavolo e gettò i colori per terra.
Per quel giorno avevamo finito.
Lo riportai nella sua cella, lo salutai. Non mi rispose. Passai dal metal detector, ripresi i miei effetti personali, andai verso il cancello. Mi sentivo solo.
Aprii il cancello. Nel mondo di fuori era la Vigilia. Salii in macchina, misi in moto e partii.

 

Marco Zangari © 2011

Fotografia di Michelangelo Restuccia (pubblicata in “Chi ha bisogno di Rivoluzione quando invece può andarsene al mare”, Samperi 2016)

No Comments

Post A Comment