Italiani in Australia (II Parte)

– Scovai un muro pieno di nomi. Era il Welcome Wall, e quelli erano solo alcuni dei milioni di emigranti che avevano fatto di Oz la loro casa. Dando un’occhiata veloce, si trovavano tantissimi nomi italiani. Ti chiedevi come doveva essere stato, arrivare dopo un viaggio così lungo in una terra sconosciuta, dove fa caldo a dicembre e freddo ad agosto. C’erano delle frasi di alcuni emigranti. Alcuni dicevano di essere scoppiati a piangere, all’arrivo. Altri avevano paura. Non vedevano città, case, niente. Un’altra lingua, un altro clima. Dopo mesi di navigazione, potevi benissimo essere arrivato su un altro pianeta.
Perdevi la vecchia casa, e quella nuova ancora non si vedeva.

– In qualche modo mi ero fatto la strana idea che le cose si stessero aggiustando in Italia. Forse ero entrato anch’io nell’Utopia dell’Emigrante. Mi ero sentito ripetere troppe volte da troppe persone come fosse bello il Paese dal quale venivo, tutto pasta, musica, arte, moda, calcio, spiagge e Ferrari.
Forse mi ero semplicemente dimenticato di com’era l’Italia davvero e me ne stavo creando una tutta mia. Più le cose andavano storte da una parte, più l’altra ne guadagnava.

– Da lontano come eravamo noi, la potevamo vedere in maniera diversa, la nostra piccola povera Italia. Senza le urla dei talkshow, senza i giornali pieni di bugie, senza i miracoli italiani che ci sbattevano in faccia e poi dritti su per il culo, la vedevamo per quello che era: un’orfana meravigliosa e allo sbando, che si drogava di attese mentre barcollava sull’orlo di un nuovo baratro.
Tutti a Oz mi parlavano di un’Italia da cartolina che, semmai fosse esistita davvero, ora era scomparsa. Ogni tanto sognavamo anche noi quell’Italia lì. Ci forzavamo a crederla reale. Alcuni perfino tornavano indietro, spinti da quell’Utopia.
Poi ci telefonavano per dirci com’era veramente.
Noi, però, non ci facevamo più trovare.

– Eravamo fuggiti da un Paese che non era riuscito mai ad essere un genitore decente, pronto solo a fare la voce grossa, a punire il minimo errore, a farci sentire coglioni. Non era un Paese che ci premiava per le capacità che spesso avevamo e non potevamo sfruttare. Eravamo stati schiacciati da un sistema pensato da settantenni, un sistema vecchio già quando noi eravamo nati.
La cosa ironica era che questi nuovi emigranti d’Italia l’amavano davvero, la loro terra, e amavano le loro famiglie. Lorenzo si sbronzava ogni sera perché i suoi gli mancavano. Lo insultavano ogni giorno, lo facevano sentire in colpa, e lo stesso continuavano a mancargli. E loro non ne avrebbero mai saputo niente, di tutto questo. Avrebbero pensato che, una volta finita la telefonata, lui sarebbe tornato alle sue feste e alle sue spiagge.
Avrebbero pensato che il loro era soltanto un altro figlio ingrato.

– Nessuno in Italia sapeva di questi emigranti, di quel che erano riusciti a fare. Eppure erano loro, spesso, il motivo per cui la gente ci ammirava negli altri paesi – non i nostri politici ridicoli, non la nostra economia da barzelletta. In patria si ricordavano di loro solo per spremergli un voto periferico una volta ogni 5 anni. Se non stavano attenti, gli fottevano pure i soldi dai conti correnti rimasti in Italia. Bella ricompensa, per essere stati costretti proprio da loro ad andare via, e per aver avuto le palle di saper ricominciare.
Ma posti come Lygon Street erano il loro premio, e se gli italiani li avevano dimenticati, loro non si dimenticavano mai di essere italiani.

– Mi chiedevo come mai non ne avevo mai saputo niente, di storie del genere. Ce n’erano tantissime, qui come in America e in altri luoghi dove gli italiani erano stati pionieri. Mi chiedevo perché, invece, avevo dovuto imparare delle storie che non valevano niente, piene di finti eroi e di notizie di cartone. In un Paese dove si gloriano undici tizi in pantaloncini che corrono dietro una palla, c’è poco spazio per storie così.

– Strinsi le pizze. Mi vidi da fuori: un italiano in giacca di pelle con due pizze in mano. Ero uno stereotipo che camminava nel bush.

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